di Cesare Beccaria
(1764)
Capitolo 28 - DELLA PENA DI MORTE
1 Questa inutile prodigalità di supplicii, che non ha mai resi migliori gli uomini, mi ha
spinto ad esaminare se la morte sia veramente utile e giusta in un
governo bene organizzato. Qual può essere il diritto che si attribuiscono gli uomini
di trucidare i loro simili? Non certamente quello da cui risulta la sovranità
e le leggi. Esse non sono che una somma di minime porzioni della privata libertà di
ciascuno; esse rappresentano la volontà generale, che è l'aggregato
delle particolari. Chi è mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l'arbitrio di
ucciderlo? Come mai nel minimo sacrificio della libertà di ciascuno vi può essere quello
del massimo tra tutti i beni, la vita? E se ciò fu fatto, come
10 si accorda un tal principio coll'altro, che l'uomo non è padrone di uccidersi, e
doveva esserlo se ha potuto
dare altrui questo diritto o alla società intera?
Non è dunque la pena di morte un diritto, mentre ho dimostrato che tale
essere non può, ma è una guerra della nazione con un cittadino, perché giudica
necessaria o utile la distruzione del suo essere. Ma se dimostrerò non essere la
morte né utile né
necessaria, avrò vinto la causa dell'umanità.
La morte di un cittadino non può credersi necessaria che per due motivi.
Il primo, quando anche privo di libertà egli abbia ancora tali relazioni e tal
potenza che interessi la sicurezza della nazione; quando la sua esistenza possa
produrre una rivoluzione pericolosa nella forma di governo stabilita. La morte di
20 qualche cittadino divien dunque necessaria quando la nazione ricupera o perde la
sua libertà, o nel tempo dell'anarchia, quando i disordini stessi tengon luogo di
leggi; ma durante il tranquillo regno delle leggi, in una forma di governo per la
quale i voti della nazione siano riuniti, ben munita al di fuori e al di dentro
dalla forza e dalla opinione, forse più efficace della forza medesima, dove il
comando non è che presso il vero sovrano, dove le ricchezze comprano piaceri e non
autorità, io non veggo necessità alcuna di distruggere un cittadino, se non quando
la di lui morte fosse il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal
commettere delitti, secondo motivo per cui può credersi giusta e necessaria la pena
di morte.
30 Quando la sperienza di tutt'i secoli, nei quali l'ultimo supplicio non ha
mai distolti gli uomini determinati dall'offendere la società, quando l'esempio dei
cittadini romani, e vent'anni di regno dell'imperatrice Elisabetta di Moscovia, nei
quali diede ai padri dei popoli quest'illustre esempio, che equivale almeno a molte
conquiste comprate col sangue dei figli della patria, non persuadessero gli uomini,
a cui il linguaggio della ragione è sempre sospetto ed efficace quello
dell'autorità, basta consultare la natura dell'uomo per sentire la verità della mia
assersione.
Non è l'intensione della pena che fa il maggior effetto sull'animo umano,
ma l'estensione di essa; perché la nostra sensibilità è più facilmente e
40 stabilmente mossa da minime ma replicate impressioni che da un forte ma passeggiero
movimento. L'impero dell'abitudine è universale sopra ogni essere che sente, e come
l'uomo parla e cammina e procacciasi i suoi bisogni col di lei aiuto, così l'idee
morali non si stampano nella mente che per durevoli ed iterate percosse. Non è il
terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e
stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio,
ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte
contro i delitti. Quell'efficace, perché spessissimo ripetuto ritorno sopra di noi
medesimi, io stesso sarò ridotto a cosí lunga e misera condizione se commetterò
simili misfatti, è assai più possente che non l'idea della morte, che gli uomini
50 veggon sempre in una oscura lontananza.
La pena di morte fa un'impressione che colla sua forza non supplisce alla
pronta dimenticanza, naturale all'uomo anche nelle cose più essenziali, ed
accelerata dalle passioni. Regola generale: le passioni violenti sorprendono gli
uomini, ma non per lungo tempo, e però sono atte a fare quelle rivoluzioni che di
uomini comuni ne fanno o dei Persiani o dei Lacedemoni; ma in un libero e
tranquillo governo le
impressioni debbono essere più frequenti che forti.
La pena di morte diviene uno spettacolo per la maggior parte e un oggetto
di compassione mista di sdegno per alcuni; ambidue questi sentimenti occupano piú
l'animo degli spettatori che non il salutare terrore che la legge pretende
60 inspirare. Ma nelle pene moderate e continue il sentimento dominante è l'ultimo
perché è il solo. Il limite che fissar dovrebbe il legislatore al rigore delle pene
sembra consistere nel sentimento di compassione, quando comincia a prevalere su di
ogni altro nell'animo degli spettatori d'un supplicio più fatto per essi che per il
reo.
Perché una pena sia giusta non deve avere che quei soli gradi d'intensione
che bastano a rimuovere gli uomini dai delitti; ora non vi è alcuno che,
riflettendovi, scieglier possa la totale e perpetua perdita della propria libertà
per quanto avvantaggioso possa essere un delitto: dunque l'intensione della pena di
schiavitù perpetua sostituita alla pena di morte ha ciò che basta per rimuovere
70 qualunque animo determinato; aggiungo che ha di più: moltissimi risguardano la
morte con viso tranquillo e fermo, chi per fanatismo, chi per vanità, che quasi
sempre accompagna l'uomo al di là dalla tomba, chi per un ultimo e disperato
tentativo o di non vivere o di sortir di miseria; ma né il fanatismo né la vanità
stanno fra i ceppi o le catene, sotto il bastone, sotto il giogo, in una gabbia di
ferro, e il disperato non finisce i suoi mali, ma gli comincia. L'animo nostro
resiste piú alla violenza ed agli estremi ma passeggieri dolori che al tempo ed
all'incessante noia; perché egli può per dir cosí condensar tutto se stesso per un
momento per respinger i primi, ma la vigorosa di lui elasticità non basta a
resistere alla lunga e ripetuta azione dei secondi. Colla pena di morte ogni
80 esempio che si dà alla nazione suppone un delitto; nella pena di schiavitù perpetua
un sol delitto dà moltissimi e durevoli esempi, e se egli è importante che gli
uomini veggano spesso il poter delle leggi, le pene di morte non debbono essere
molto distanti fra di loro: dunque suppongono la frequenza dei delitti, dunque
perché questo supplicio sia utile bisogna che non faccia su gli uomini tutta
l'impressione che far dovrebbe, cioè che sia utile e non utile nel medesimo tempo.
Chi dicesse che la schiavitù perpetua è dolorosa quanto la morte, e perciò
egualmente crudele, io risponderò che sommando tutti i momenti infelici della
schiavitù lo sarà forse anche di piú, ma questi sono stesi sopra tutta la vita, e
quella esercita tutta la sua forza in un momento; ed è questo il vantaggio della
90 pena di schiavitù, che spaventa piú chi la vede che chi la soffre; perché il primo
considera tutta la somma dei momenti infelici, ed il secondo è dall'infelicità del
momento presente distratto dalla futura. Tutti i mali s'ingrandiscono
nell'immaginazione, e chi soffre trova delle risorse e delle consolazioni non
conosciute e non credute dagli spettatori, che sostituiscono la propria sensibilità
all'animo incallito dell'infelice.
Ecco presso a poco il ragionamento che fa un ladro o un assassino, i quali
non hanno altro contrappeso per non violare le leggi che la forca o la ruota. So
che lo sviluppare i sentimenti del proprio animo è un'arte che s'apprende colla
educazione; ma perché un ladro non renderebbe bene i suoi principii, non per ciò
100 essi agiscon meno. Quali sono queste leggi ch'io debbo rispettare, che lasciano un
cosí grande intervallo tra me e il ricco? Egli mi nega un soldo che li cerco, e si
scusa col comandarmi un travaglio che non conosce. Chi ha fatte queste leggi?
Uomini ricchi e potenti, che non si sono mai degnati visitare le squallide capanne
del povero, che non hanno mai diviso un ammuffito pane fralle innocenti grida degli
affamati figliuoli e le lagrime della moglie. Rompiamo questi legami fatali alla
maggior parte ed utili ad alcuni pochi ed indolenti tiranni, attacchiamo
l'ingiustizia nella sua sorgente. Ritornerò nel mio stato d'indipendenza naturale,
vivrò libero e felice per qualche tempo coi frutti del mio coraggio e della mia
industria, verrà forse il giorno del dolore e del pentimento, ma sarà breve questo
110 tempo, ed avrò un giorno di stento per molti anni di libertà e di piaceri. Re di un
piccol numero, correggerò gli errori della fortuna, e vedrò questi tiranni
impallidire e palpitare alla presenza di colui che con un insultante fasto
posponevano ai loro cavalli, ai loro cani.
Allora la religione si affaccia alla mente dello scellerato, che abusa di tutto, e
presentandogli un facile pentimento ed una quasi certezza di eterna felicità, diminuisce
di molto l'orrore di quell'ultima tragedia. Ma colui che si vede avanti agli occhi un gran
numero d'anni, o anche tutto il corso della vita che passerebbe nella schiavitù e nel dolore
in faccia a' suoi concittadini, co' quali vive libero e sociabile, schiavo di quelle leggi
dalle quali era protetto, fa un utile paragone di tutto ciò coll'incertezza dell'esito de' suoi
120 delitti, colla brevità del tempo di cui ne goderebbe i frutti.
L'esempio continuo di quelli che attualmente vede vittime della propria inavvedutezza,
gli fa una impressione assai più forte che non lo spettacolo di
un supplicio che lo indurisce più che non lo corregge.
Non è utile la pena di morte per l'esempio di atrocità che dà agli uomini.
Se le passioni o la necessità della guerra hanno insegnato a spargere il sangue
umano, le leggi moderatrici della condotta degli uomini non dovrebbono aumentare il
fiero esempio, tanto più funesto quanto la morte legale è data con istudio e con
formalità. Parmi un assurdo che le leggi, che sono l'espressione della pubblica
volontà, che detestano e puniscono l'omicidio, ne commettono uno esse medesime, e,
130 per allontanare i cittadini dall'assassinio, ordinino un pubblico assassinio. Quali
sono le vere e le più utili leggi? Quei patti e quelle condizioni che tutti
vorrebbero osservare e proporre, mentre tace la voce sempre ascoltata
dell'interesse privato o si combina con quello del pubblico. Quali sono i
sentimenti di ciascuno sulla pena di morte? Leggiamoli negli atti d'indegnazione e
di disprezzo con cui ciascuno guarda il carnefice, che è pure un innocente
esecutore della pubblica volontà, un buon cittadino che contribuisce al ben
pubblico, lo stromento necessario alla pubblica sicurezza al di dentro, come i
valorosi soldati al di fuori. Qual è dunque l'origine di questa contradizione? E
perché è indelebile negli uomini questo sentimento ad onta della ragione? Perché
140 gli uomini nel piú secreto dei loro animi, parte che più d'ogn'altra conserva ancor
la forma originale della vecchia natura, hanno sempre creduto non essere la vita
propria in potestà di alcuno fuori che della necessità, che col suo scettro di
ferro regge l'universo.
Che debbon pensare gli uomini nel vedere i savi magistrati e i gravi
sacerdoti della giustizia, che con indifferente tranquillità fanno strascinare con
lento apparato un reo alla morte, e mentre un misero spasima nelle ultime angosce,
aspettando il colpo fatale, passa il giudice con insensibile freddezza, e
fors'anche con segreta compiacenza della propria autorità, a gustare i comodi e i
piaceri della vita? Ah!, diranno essi, queste leggi non sono che i pretesti della
150 forza e le meditate e crudeli formalità della giustizia; non sono che un linguaggio
di convenzione per immolarci con maggiore sicurezza, come vittime destinate in
sacrificio, all'idolo insaziabile del dispotismo. L'assassinio, che ci vien
predicato come un terribile misfatto, lo veggiamo pure senza ripugnanza e senza
furore adoperato. Prevalghiamoci dell'esempio. Ci pareva la morte violenta una
scena terribile nelle descrizioni che ci venivan fatte, ma lo veggiamo un affare di
momento. Quanto lo sarà meno in chi, non aspettandola, ne risparmia quasi tutto ciò
che ha di doloroso! Tali sono i funesti paralogismi che, se non con chiarezza,
confusamente almeno, fanno gli uomini disposti a' delitti, ne' quali, come abbiam
veduto, l'abuso della religione può più che la
religione medesima.
160 Se mi si opponesse l'esempio di quasi tutt'i secoli e di quasi tutte le
nazioni, che hanno data pena di morte ad alcuni delitti, io risponderò che egli si
annienta in faccia alla verità, contro della quale non vi ha prescrizione; che la
storia degli uomini ci dà l'idea di un immenso pelago di errori, fra i quali poche
e confuse, e a grandi intervalli distanti, verità soprannuotano. Gli umani
sacrifici furon comuni a quasi tutte le nazioni, e chi oserà scusargli? Che alcune
poche società, e per poco tempo solamente, si sieno astenute dal dare la morte, ciò
mi è piuttosto favorevole che contrario, perché ciò è conforme alla fortuna delle
grandi verità, la durata delle quali non è che un lampo, in paragone della lunga e
tenebrosa notte che involge gli uomini. Non è ancor giunta l'epoca fortunata, in
170 cui la verità, come finora l'errore, appartenga al più gran numero, e da questa
legge universale non ne sono andate esenti fin ora che le sole verità che la
Sapienza infinita ha voluto
divider dalle altre col rivelarle.
La voce di un filosofo è troppo debole contro i tumulti e le grida di
tanti che son guidati dalla cieca consuetudine, ma i pochi saggi che sono sparsi
sulla faccia della terra mi faranno eco nell'intimo de' loro cuori; e se la verità
potesse, fra gl'infiniti ostacoli che l'allontanano da un monarca, mal grado suo,
giungere fino al suo trono, sappia che ella vi arriva co' voti segreti di tutti gli
uomini, sappia che tacerà in faccia a lui la sanguinosa fama dei conquistatori e
che la giusta posterità gli assegna il primo luogo fra i pacifici trofei dei Titi,
180 degli Antonini e dei Traiani.
Felice l'umanità, se per la prima volta le si dettassero leggi, ora che
veggiamo riposti su i troni di Europa monarchi benefici, animatori delle pacifiche
virtú, delle scienze, delle arti, padri de' loro popoli, cittadini coronati,
l'aumento dell'autorità de' quali forma la felicità de' sudditi perché toglie
quell'intermediario dispotismo piú crudele, perché men sicuro, da cui venivano
soffogati i voti sempre sinceri del popolo e sempre fausti quando posson giungere
al trono! Se essi, dico, lascian sussistere le antiche leggi, ciò nasce dalla
difficoltà infinita di togliere dagli errori la venerata ruggine di molti secoli,
ciò è un motivo per i cittadini illuminati di desiderare con maggiore ardore il
190 continuo accrescimento della loro autorità.