Francesca Garbin, classe 3^ A Ling.

A.S. 2007/2008

Analisi del testo filosofico

“L’anello di Gige”

 

A. Platone fu un filosofo ateniese vissuto tra il V e il VI secolo a.c. (427-347 a.C.). Fu un allievo di Socrate, dal quale fu molto influenzato, ed anzi Platone è una delle fonti più attendibili su cui si basano gli storici moderni per ricostruire il pensiero del suo maestro (infatti, Platone inserì Socrate come protagonista in molti suoi dialoghi).

Platone fondò una sua scuola, l’Accademia, dedita agli studi filosofici; inoltre, compì tre viaggi a Siracusa, dove sperava di riuscire a introdurre un governo basato sulla filosofia, l’unica che potesse veramente permettere un cambiamento nei modi di vivere e nell’organizzazione della società e dello Stato. Egli, infatti, si interessò molto alla relazione che intercorre tra politica e filosofia: la analizzò molto nella “Repubblica” – nella quale delineò la società ideale –, nel “Politico” – nel quale si definì appunto la scienza politica e chi è l’uomo che la deve esercitare – e nelle “Leggi” – dialogo nel quale riprese il tema dello Stato come comunità educante e rifletté su come dovrebbe essere affinché possa essere tale.

E’ significativo ricordare che Platone inserì numerosi miti nei suoi testi; tra di essi sul tema della politica e della giustizia, è da ricordare quello dell’anello di Gige, contenuto nel II libro della “Repubblica”.

B 1-2. Globalmente, il testo si presenta come un dialogo, come è deducibile dal rigo 3 (“Tale, Socrate…”), nel quale si tratta della giustizia; questa, infatti, viene vista come posizione intermedia tra quella migliore e quella peggiore dell’uomo, ma è compiuta solo perché non si può fare altrimenti: un giusto che ne avesse la possibilità troverebbe più vantaggioso commettere ingiustizia, come dimostrato nel mito di Gige.

B 3. I termini “sorprendenti” sono: ingiustizia, bene, male (r. 1), giustizia (r. 5), incapacità (r. 10), impossibilità (r. 14), potere (r. 36).

B 4. 1-2-3 GIUSTIZIA/ INGIUSTIZIA I termini attorno cui ruota tutto il testo sono “giustizia” e “ingiustizia”; sono termini opposti che si riferiscono ad una condizione dell’uomo, vantaggiosa o svantaggiosa a seconda che sia commessa o subita.

La giustizia è ciò che viene imposto dalla legge, a metà tra la condizione migliore e quella peggiore ed è compiuta perché si è incapaci di commettere ingiustizia, in quanto si sarebbe perseguibile dalla legge. L’ingiustizia è quindi una condizione che è un bene attuare, ma un male subire; in una società regolata dalle leggi, però, è sconsigliato essere ingiusti, perché si commetterebbe reato, sebbene l’ingiustizia sia ritenuta più vantaggiosa agli occhi di ognuno di noi (r. 48-49), quindi “nessuno è giusto di sua volontà, ma per costrizione” (r. 43-44).

E’ interessante notare come in merito a ciò Platone usi due termini differenti per riferirsi a questa “costrizione”: prima la giustizia viene definita “incapacità di commettere ingiustizia” (r. 10), in seguito “impossibilità” (r. 14). Indubbiamente, “impossibilità” è più forte e sottolinea una situazione dalla quale non si può uscire, trovandosi Platone in una società civile e regolata dalle leggi ormai da secoli; l’ingiustizia non è quindi tollerabile e ammessa.

B 4.2. In Platone, il termine “giustizia” viene spesso usato. Per esempio, possiamo trovarlo nel testo pag. 199, “Bisogna chiedersi cosa sia la virtù nella sua totalità”, tratto dal “Menone”, un dialogo della maturità in cui si parla della virtù. Infatti, la giustizia è strettamente collegata: viene qui definita come una parte della virtù; la virtù è ciò che è fatto con giustizia.

Nel IV libro della “Repubblica”, invece, la giustizia è una delle quattro virtù dello Stato perfetto, assieme a sapienza, coraggio e temperanza, ed è la somma delle altre tre, quella che le armonizza.

B 4.3. Ma nella nostra società, cosa significa “giustizia”? Recita il dizionario: “virtù per la quale si riconoscono e si rispettano i diritti propri ed altrui, e sulla base della quale si modella il proprio comportamento verso gli altri, le istituzioni, ecc.”; è quindi intesa come una qualità personale, sebbene sia strettamente legata al vivere civile e al rispetto delle leggi. “Ingiustizia” è: “l’essere ingiusto, violare i principi della giustizia nell’agire e nel giudicare”.

B.4. 1-3 POTERE “Potere” nel testo è usato con due accezioni diverse: in riferimento all’anello (r. 33) e alla politica (r. 36). Nel primo caso è da intendersi come capacità, una caratteristica dell’anello (il dizionario Dardano recita: “capacità, possibilità di agire, di fare, di compiere una determinata azione”), mentre nel secondo è in riferimento alla sfera giudiziaria, al potere che il re possiede sullo stato e sui sudditi (secondo il Dardano è “particolare autorità conferita giuridicamente a persone o a organi, in base alla carica o alla funzione ricoperta”).

B.4. 1-2-3 BENE/ MALE “Bene” e “male” sono termini opposti che sottolineano due condizioni dell’essere; “bene” si riferisce a una situazione vantaggiosa per l’individuo, “male” a qualcosa che nuoce. Nel testo a pag. 232, “Contemplazione del bene in sé e del governo dello Stato”, tratto dal VII libro della “Repubblica”, il bene è un modello da seguire per ordinare lo Stato in modo giusto ed equi. Nel dizionario, “bene” è “ciò che è buono, giusto, onesto, inteso come principio a cui ispirare una condotta morale”, mentre “male” vuol dire “ciò che è malvagio, ingiusto, dannoso”. Queste definizioni sono applicabili anche in Socrate, a pag. 178, nel testo “Il bene non si identifica con il piacere”, si definiscono il bene e il male come antitetici e si stabilisce un confronto con piacere e sofferenza, che presentano natura qualitativamente diversa rispetto ai primi due termini.

C.1.1 e C.1.2. Il testo può essere suddiviso in alcuni paragrafi: il primo, dal rigo 1 al 13, può intitolarsi “Definizione generale di giustizia e ingiustizia”; il secondo, r. 14-19, “Giusto e ingiusto nella situazione di commettere ingiustizia agirebbero in egual modo”; il terzo, r. 20-36, “Il mito: l’anello rende il giusto Gige un uomo ingiusto, in quanto impunibile”; il quarto, r. 36 (da “Se dunque”)-50, “Conclusione: dimostrazione che nessuno è giusto di sua volontà”.

C.1.3. Questo è deducibile dalle parole-chiave che troviamo nei vari paragrafi; nel primo, per esempio, sono: ingiustizia, bene, male, subirla (r. 1), commetterla (r. 2), leggi (r. 5), giustizia (r. 6); nel secondo: impossibilità (r. 14), desiderio (r. 17), soperchieria (r. 18), devia a forza (r. 19); nel terzo: anello d’oro (r. 26), invisibile (r. 30), obiettivo (r. 35), potere (r. 36); nel quarto: persistere (r. 38), impunemente (r. 39), volontà (r. 43), costrizione (r. 44).

C.2.1. La tesi centrale del testo è che nessuno è giusto di sua volontà, ma per costrizione, in quanto le leggi obbligano l’uomo ad attenersi alla giustizia.

C.2.2. Le argomentazioni sono:

- Il commettere ingiustizia è un bene per l’individuo, il subirla un male (r. 1-4);

- La giustizia non è messa in pratica perché è un bene, ma perché non si può commettere ingiustizia a causa delle leggi (r. 8-12);

- Giusto e ingiusto, seguendo il proprio desiderio, sarebbero entrambi portati a desiderare le stesse cose, se potessero fare ciò che vogliono (r. 14-19, mito di Gige).

C.2.3. Dal rigo 1 al 2 (fino a “commettere”) è presente un assioma, un’affermazione non dimostrata e accettata per vera: infatti non viene argomentato perché il commettere ingiustizia sia per natura un bene, il subirla un male, e che il subirla sia un male maggiore di quanto non sia un bene commetterla. Che ciò sia vero o no, da qui si avvia tutto il ragionamento successivo (come ben evidenziato dal “di conseguenza”).

C.2.4. La strategia argomentativa attuata è quella di apportare un esempio, un mito per la precisione: in questo modo, l’ascoltatore può persuadersi che la tesi sia effettivamente vera, o almeno in questo caso. Il pubblico potrebbe addirittura immedesimarsi in Gige e, chiedendosi che cosa avrebbe fatto nella sua stessa situazione, potrebbe anche arrivare a pensare che avrebbe agito come lui, avvalorando quindi la tesi e persuadendosi della sua validità.

Inoltre, il testo è strutturato in modo da presentare un ragionamento deduttivo all’inizio (dal generale all’applicazione particolare in Gige) e in seguito uno induttivo (partendo dall’esperienza del pastore, si va poi verso il generale).

D.1. All’interno del mito, all’inizio viene introdotto un personaggio storico: Creso, re di Lidia (r. 21). Accertandone la veridicità storica, potremmo anche collocare l’avventura di Gige in una realtà storica più o meno definita (sicuramente anteriore a quella di Creso). Non si cita però il luogo esatto dove Gige vive.

D.2. Vi sono molti fattori legati alla mentalità del tempo ricavabili dal testo: per esempio, nel mito, l’accontentarsi di un solo anello d’oro da parte di Gige di fronte a tutte le ricchezze che gli si presentano è sinonimo di equilibrio morale e dimostra come questo pastore, che in quanto tale forse non era molto ricco, sia stato in grado di resistere alla tentazione di una grande ricchezza, sebbene in seguito dimostri di non accontentarsi di ciò che ha e di sfruttare l’anello per ottenere il potere.

Inoltre, il tradimento della moglie del re attesta come in quella società la dissolutezza morale non destasse troppo scandalo, anche se l’adulterio viene ripreso anche in seguito (r. 40), incluso tra ciò che una persona potrebbe fare impunemente; era quindi punito dalla legge o comunque dalla moralità comune.

La riunione di pastori che devono accordarsi sul rendiconto mensile delle greggi per il re testimonia come il reggente avesse un controllo capillare e organizzato sul suo territorio. Possiamo inoltre dire che la società presentata dal testo è si civile in quanto regolata da leggi, ma queste sono sentite come ostacolo alla cupidigia umana e quindi non del tutto vantaggiose per il singolo individuo.

D.3. Il tema della giustizia era già stato trattato, per esempio dai sofisti; colore è la frase di Trasimaco, secondo la quale la giustizia sarebbe l’utile del più forte (citata nel libro I della “Repubblica”). Questa affermazione si ricollega al testo infatti qui Gige è il più forte, potendo egli essere invisibile e quindi impunibile, al di sopra della legge; di sicuro il più forte non è il re, che viene ucciso, e non sappiamo se questa situazione possa essere l’utile della popolazione, in quanto non conosciamo gli esiti del governo di Gige.

Socrate invece diceva che le azioni ingiuste sono quelle compiute contro gli amici con l’intenzione di danneggiarli; Platone si discosta da ciò, definendo l’ingiustizia in modo più generale come ciò che nuoce agli altri, senza entrare nel merito dei rapporti personali.

E.1.1. I presupposto da cui il testo parte sono accettabili, in quanto si definisce la giustizia e la legge come un compromesso tra gli uomini, per far in modo che nessuno commetta o subisca ingiustizie.

E.1.2. I termini mantengono sempre lo stesso significato, tranne “potere”, usato in due contesti diversi (potere politico e potere inteso come capacità).

E.1.3. Delle tre argomentazioni, la più discutibile è la terza (vedi punto C.2.2), quella da cui si avvia la narrazione del mito. Infatti, non è detto che giusto e ingiusto, se impunibili, si comporterebbero nello stesso modo, perché dipende dalla cupidigia e dalla moralità del giusto: se questi è convinto che il bene di tutti, e quindi la legge, sia un bene anche per lui, egli non è portato a commettere ingiustizia, ma si atterrà alla sua moralità. Forse Gige non era un uomo interamente giusto, aspettava solo l’occasione.

E.2. Ma se al giorno d’oggi si disponesse di un anello così, si potrebbe spodestare il governante e impadronirsi del potere? C’è chi lo farebbe, modificando, una volta salito al governo, le leggi secondo le proprie esigenze e adattandole alla situazione; la giustizia sarebbe così “l’utile del più forte”, di colui che ha la possibilità di cambiare ciò che non gli si adatta… ed è una situazione di cui siamo stati testimoni. Siamo tornati al V secolo a.C., al tempo dei sofisti, quando Trasimaco sosteneva le sue idee; oggi chissà se qualcuno ancora sostiene questa definizione di giustizia, ma di sicuro non si può negare che non la si metta in pratica.

Purtroppo gli anelli invisibili non esistono, ma l’animo umano è sempre corruttibile, con il potere, come è successo a Gige, o con il denaro, che chi vuole governare al giorno d’oggi deve possedere in abbondanza. Forse, se la situazione presentata dal mito si verificasse ora, ci sarebbero gli organismi internazionali a intervenire, o la popolazione, più istruita e conscia dei propri diritti rispetto alla Lidia antica (anche se purtroppo ciò non è vero in tutto il mondo), potrebbe intervenire; riuscendo però a non farsi imputare la morte del governante e attraverso dei brogli elettorali o la corruzione degli elettori, il moderno Gige riuscirebbe ad ottenere il potere.

Quello analizzato è quindi un mito attuale, purtroppo, perché nonostante il tempo passi, l’essere umano non cambia, anzi, forse peggiora, perché, cieco al passato, non impara dai propri errori.

E.3. Se Platone fosse un nostro contemporaneo…

Caro signor Platone,

sono rimasta favorevolmente  colpita dal suo punto di vista sulla giustizia, in particolare in merito al mito di Gige. Ma volevo chiederle: quella presentata nel testo potrà forse essere una giustizia un po’ sofistica, intesa come l’utile del più forte, ossia Gige, ma questo suo bene personale può portare al bene dell’intera popolazione? L’ex-pastore potrebbe rivelarsi totalmente incapace, oppure possedere una naturale attitudine al comando, nessuno lo può dire. Forse lei conosce la fine di questa storia e le sarei grata se volesse raccontarmela.

Quello che più mi interessa però è sapere come lei, se fosse stato un abitante della Lidia, si sarebbe comportato nei confronti del nuovo re, sapendo cos’aveva fatto. Questi avrebbe potuto essere adatto al comando? E soprattutto, come avrebbe fatto la popolazione a fidarsi di lui, conoscendo la sua natura subdola?

I pensatori politici del Quattrocento ritenevano che un buon re dovesse essere abile e dovesse raggiungere i suoi scopi, anche con sottigliezze, cautela, dissimulazione e, se necessario, con l’assassinio degli avversari. Lei che cosa ne pensa?

Io spero comunque che Gige abbia avuto una minima attitudine al comando, altrimenti sarebbe stato uno stolto: avrebbe potuto tranquillamente rubare tutto ciò che desiderava e trascorrere una vita tranquilla con tutti gli agi, invece di sporcarsi la coscienza con una congiura e un assassinio e prendersi sulle spalle un peso gravoso come quello della guida di uno Stato.

Distinti saluti,

Francesca Garbin, classe 3^ A Ling.

 

 

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