Silvia Segantin classe 3^ A  Ling.

A.S. 2007/2008

 

ANALISI DEL TESTO FILOSOFICO

“L’ANELLO DI GIGE”

(Platone, Repubblica, libro II)

 

 

A. Platone nasce ad Atene nel 428 a.C. da famiglia aristocratica. Da giovane manifesta interesse per la politica, ma, a causa di alcuni gravi avvenimenti, tra i quali il processo e la condanna a morte di Socrate, suo amico e maestro, si allontana definitivamente dalle aspirazioni politiche dedicandosi alla filosofia. Nel 396 a.C. inizia la sua esperienza di viaggi, che avrà grande influenza sul pensiero platonico, in particolare quelli a Siracusa. Il primo, che risale al 388 a.C., vede Platone alla corte di Dionisio I, dove stringe amicizia col cognato del tiranno, Dione. L'anno successivo torna ad Atene, dove fonda una scuola, l'Accademia. Negli anni seguenti, Platone compie altri due viaggi in Sicilia, nella speranza di esercitare attraverso la filosofia un'influenza sulla vita politica della città. Ma il nuovo tiranno Dionisio II, sospettando delle reali intenzioni di Dione, condanna questo all'esilio e imprigiona Platone, che verrà liberato da Archita. Muore nel 347 a.C. e viene sostituito alla guida dell'Accademia dal nipote Speusippo. Platone fu il primo filosofo a lasciare abbondante testimonianza scritta del suo pensiero; di lui ci sono pervenute tutte le opere, che possono essere suddivise in: “Apologia di Socrate”, 34 dialoghi e 13 lettere, considerate un unico libro. Inoltre è la fonte principale che ha permesso di conoscere il pensiero di Socrate, che non lasciò mai nulla di scritto.

Il mito de “l’anello di Gige” è presente nel II° libro della “Repubblica”. Ha la funzione di sostenere la tesi di Glaucone, secondo il quale l’uomo, per natura, tende all’ingiustizia. Il mito riprende uno dei temi principali della “Repubblica”: la giustizia.

B.1. Ho trovato il testo molto chiaro e di semplice comprensione, poiché Platone ribadisce più volte la sua tesi adducendo argomentazioni di vario genere. Ho inoltre riscontrato una visione molto pessimistica dell’uomo, in quanto viene descritta una civiltà che ritiene un bene commettere ingiustizia e un male subirla, e i giusti finiscono per comportarsi come gli ingiusti; ho anche notato che Platone non lascia trapelare espressioni che rivelino la sua opinione riguardo questa tendenza: viene semplicemente accettata come naturale.

B.2. Il genere filosofico cui appartiene questo testo è il dialogo, che avviene tra Glaucone, fratello di Platone, e Socrate.

B.3. I termini sorprendenti che ho trovato sono: ingiustizia (r. 1), leggi (r. 5), giusto (r. 6), infelice (r. 49), ingannandosi (r. 49).

B.4.1. Platone usa questi termini con significato differente da quello attuale. L’ingiustizia è ciò che l’uomo tende a compiere per natura, poiché è più vantaggiosa sul piano personale, tanto che chi non volesse commetterla è considerato infelice. Le leggi sono ciò che scaturisce dal compromesso tra chi commette ingiustizia (condizione migliore) e chi la subisce (condizione peggiore). Il giusto è ciò che è definito nella legge, e viene guardato con accezione quasi negativa, in quanto “la giustizia […] viene amata non come un bene, ma come un qualcosa che è tenuto in conto per l’incapacità di commettere ingiustizia” (r. 9-10). Il termine “ingannandosi” non ha una valenza diversa da quella attuale.

B.4.2. Platone usa il termine “leggi” nel I° libro della Repubblica con un significato diverso: è ciò che stabilito da chi è al potere in base al proprio utile; di conseguenza, ciò che è “giusto” è definito “l’utile del più forte”, quindi ciò che serve a chi ha conquistato il potere per mantenerlo. L’“ingiustizia” è l’azione di chi viola leggi. Il termine “infelice” è usato con significato opposto a quello già analizzato: viene infatti riferito all’ingiusto anziché al giusto.

B.4.3. Definizioni tratte da un contesto più generale (dizionari). Ingiustizia: atto sbagliato o omissione che nega ad un individuo o a un gruppo i diritti di cui dovrebbe godere; giusto: caratterizzato da imparzialità, che segue le regole stabilite; legge: (diritto) principio normativo che regola il comportamento degli uomini; infelice: in condizione misera o non desiderabile, che prova tristezza o malcontento.

C.1.1 e C.1.2. Ho suddiviso il testo in 9 paragrafi. Righe 1-4: “L’ingiustizia è un bene”; righe 5-13: “Nascita delle leggi e della giustizia”; righe 4-19: “Anche il giusto tende all’ingiusto”; righe 20-23: “Il mito di Gige: prima dell’anello”; righe 24-26: “L’anello”; righe 27-34: “Il potere dell’invisibilità”; righe 35-37: “L’abuso di potere”; righe 38-45: “La naturale tendenza all’ingiustizia”; righe 46-50: “L’ingiustizia è più vantaggiosa della giustizia”.

C.1.3. Le parole-chiave sono: ingiustizia (r. 1), bene (r. 1), male (r. 1), leggi e patti (r. 5), giustizia (r. 6).

C.2.1. La tesi centrale è che chiunque tende per natura verso l’ingiustizia, e chi pratica la giustizia lo fa contro voglia. Possiamo rintracciarla soprattutto in questi punti: righe 14-19; righe 38-44.

C.2.2. Le argomentazioni addotte a sostegno sono: la creazione delle leggi (righe 2-4); il fatto che la giustizia è considerata non un bene ma qualcosa che impedisce di commettere ingiustizia (righe 8-10); il mito di Gige, in cui un uomo inizialmente giusto appena trova uno strumento di potere diviene ingiusto (righe 14-37); il fatto che se un uomo, potendo commettere ingiustizia, non lo facesse, sarebbe considerato infelice e stupido (righe 47-50).

C.2.3. Nel testo sono presenti alcuni assiomi: il fatto che il commettere l’ingiustizia sia per natura un bene, il subirla un male, e che il subirla sia un male maggiore di quanto non sia un bene commetterla (righe 1-2). Infatti non viene dimostrata la natura positiva del commettere ingiustizia o quella negativa del subirla, né perché sia meglio commetterla anziché subirla, viene soltanto dimostrato come l’uomo sia naturalmente portato a commetterne. Questo tema viene ripreso anche alle righe 7-8, in cui chi non paga le conseguenze delle ingiustizie commesse si trova nella condizione migliore e chi non può vendicare le ingiustizie subite si trova nella condizione peggiore. Inoltre è presente una convinzione non dimostrata, in quanto ricalca un pensiero comune della civiltà: che l’uomo che non commette ingiustizia pur potendo farlo è considerato stupido (riga 49).
C.2.4. Platone parte dal presupposto di una credenza diffusa (“Si dice che il commettere ingiustizia sia per natura un bene, il subirla un male”, riga 1) e, con un ragionamento, ne illustra le conseguenze, cioè la creazione delle leggi: l’uomo, tendendo all’ingiustizia, può trovarsi in due situazioni: compierla o subirla; quindi, non potendo evitarne una e scegliere l’altra, giunge ad accordi per non commettere né subire ingiustizia; così nascono patti e leggi (righe 2-4). Poi asserisce come ulteriore argomentazione il fatto che la giustizia fosse considerata una proibizione al commettere ingiustizia, anziché un valore, e quindi che l’uomo non la pratica di sua volontà, dimostrando in questo modo che se la giustizia è un’imposizione, la tendenza naturale è l’ingiustizia. Platone ricorre inoltre ad un mito per rafforzare la sua tesi, tecnica spesso usata dall’autore a questo scopo. L’ultima argomentazione utilizzata non è dimostrata, ed è che chi scegliesse la giustizia quando potrebbe commettere ingiustizia, sarebbe considerato infelice.
D.1. Il testo nomina, nella parte in cui è narrato il mito di Gige, Creso, re di Lidia, che regnò dal 560/561 a.C. al 547 a.C. Inoltre è presente un riferimento alla leggenda del cavallo di Troia, ripresa anche da Omero nell’Odissea, nel passo in cui Gige, dopo il terremoto, scopre un cavallo di bronzo, cavo, al cui interno trova il cadavere al quale sottrarrà l’anello. Viene poi accennata la religione olimpica dell’epoca, secondo la quale gli dèi potevano praticare impunemente qualsiasi cosa volessero.

D.2. Sono presenti modi di pensare della civiltà dell’epoca alle righe 1-2, in cui si dice che commettere ingiustizia è un bene e subirla un male (convinzione), e alle righe 47-50, in cui chi non commette ingiustizia pur avendone la facoltà è definito infelice agli occhi di quanti lo venissero a sapere (pregiudizio). Emerge inoltre il pensiero comune che la facoltà di fare impunemente qualsiasi cosa si desideri sia propria degli dèi (righe 40-42). E’ presente l’uso linguistico del mito, tecnica che all’epoca aveva scopo eziologico, mentre nella civiltà attuale non verrebbe usata a sostegno di una tesi in un testo argomentativo.

D.3. Il primo dei filosofi affrontati ad occuparsi, seppur in parte, del tema della giustizia è Protagora, che sosteneva che il bene si identifica con l’utile, anche se ciò che è utile in alcuni ambiti non lo è in altri, e in ambito politico è l’arte retorica a permettere al cittadino di realizzare il bene della polis. Questa linea di pensiero non è riscontrabile in Platone. Troviamo invece un sicuro debito teorico platonico nel pensiero di Socrate, che sosteneva una tesi contraria a quanto emerge in questo testo, cioè che l’uomo tende sempre al bene, e anche quando compie il male è perché lo confonde con il bene. Inoltre sosteneva che è preferibile subire il male anziché commetterlo.

E.1.1. Non trovo accettabile il presupposto che il commettere ingiustizia sia per natura un male maggiore di quanto non sia un bene commetterla; di conseguenza, non accetto il presupposto che l’uomo tenda naturalmente all’ingiustizia; non condivido il presupposto che anche il giusto, avendo la facoltà di commettere ingiustizia, diventi necessariamente ingiusto. Trovo accettabile il presupposto che le leggi siano un accordo per non commettere né subire ingiustizia.

E.1.2. Ho riscontrato un’oscillazione del termine “legge” nel corso del testo: alla riga 5 è definita l’accordo stipulato tra gli uomini per non commettere né subire ingiustizia; alla riga 19 assume un’accezione negativa, poiché devia a forza la natura dell’uomo, che tende all’ingiustizia, verso la giustizia, che viene eseguita contro voglia.

E.1.3. Trovo che le argomentazioni e i ragionamenti siano costruiti in modo valido e logicamente comprensibile, tuttavia trovo superfluo l’uso del mito a sostegno di una tesi poiché nella società moderna questo non è ritenuto un valido metodo di argomentazione.

E.2. Ritengo che questo testo sia solo parzialmente applicabile alla società attuale, nella fattispecie trovo che la tendenza del giusto verso l’ingiusto si manifesti in ambito politico, o in qualsiasi altro in cui sia implicato il potere, ma non nella vita di tutti i giorni. Infatti, quando c’è di mezzo il potere è impossibile mantenere un’onestà su tutta la linea, perché è difficile da gestire senza abusarne, ma ciò non significa che ogni uomo tenda verso l’ingiusto. La gente comune opera delle scelte consapevoli, e credo che queste coincidano più spesso con la giustizia che con l’ingiustizia. Secondo me, la tendenza naturale dell’uomo è verso il giusto, e non verso l’ingiusto. Sul piano personale ritengo quest’affermazione applicabile a quasi tutte le persone che abbia avuto modo di incontrare. Inoltre, quando l’uomo commette ingiustizia, è spesso preso dal rimorso e dal senso di colpa: anche questo delinea la consapevolezza dell’errore, e quindi la tendenza alla giustizia. Ciò non è per nulla riscontrabile nel testo analizzato, quindi sono presenti differenze abissali tra la società dell’epoca e quella odierna.

E.3. Caro Aristocle,

voglio aprire questa sentita lettera con un ringraziamento: senza di te, non avrei mai pensato che la scuola che frequento avrebbe potuto trasmettermi qualcosa di apprezzabile. Pensa che da quando ti conosco ho perfino dubitato dei miei progetti futuri: perché non studiare filosofia anziché fotografia, come progetto da anni? Alla fine ho pensato che con una laurea in filosofia non si può fare molto se non l’insegnante, che è un mestiere che non sceglierei per nulla al mondo. Ai tuoi tempi non c’era questo problema: si poteva praticare il libero pensiero. Ma vallo a dire in giro oggi, che sei un “libero pensatore”… D’altronde ai tuoi tempi la società non era certamente basata su posti di lavoro scarseggianti, graduatorie e governi che cadono. Sai, a volte penso che tu nella mia dimensione non sopravvivresti due giorni. Un po’ come il tuo collega Eraclito nel libro “Panta Rei” di De Crescenzo, poveretto, non si fidava nemmeno degli spaghetti al sugo… Forse non capisci di cosa sto parlando: non so se nel paradiso (o ovunque tu sia) si possa leggere. Mi auguro di sì, altrimenti non immagino la noia! Comunque, se esistesse un paradiso dei libri, lo troveresti sicuramente. Parlando invece di questo “anello di Gige”, devo dire di aver letto cose che non mi aspettavo per nulla da te! Non credevo che la tua visione della società fosse così pessimistica! Cioè, è vero che non esprimi una tua opinione, ma non esprimi nemmeno indignazione a riguardo. Meno male che ho cercato come mai nel dialogo è nato quel discorso e come prosegue il resto de “La Repubblica”: quello che ha detto Glaucone nel testo che ho affrontato era una provocazione per assecondare Trasimaco! Questo mi ha fatto pensare a quanto possa essere pericoloso estrarre dei minimi frammenti dal contesto originale. Chi leggesse il passo che ho letto io, non conoscendo da dove proviene, la penserebbe sicuramente come me prima di approfondire: nel tuo pensiero giustifichi l’ingiustizia e la definisci un bene della natura, quando invece nel I° libro la giustizia viene difesa. Sai, questo accade molto spesso anche oggi: pensa che qualche tempo fa il Papa (una figura che ai tuoi tempi non esisteva: è il leader spirituale del cattolicesimo, nemmeno questo esisteva, ma un certo Gesù ha un po’ cambiato le cose, 600 anni dopo di te) avrebbe dovuto tenere un discorso all’Università (istituzione simile alla tua Accademia, ma molto meno colta) “La Sapienza”, ma alcuni docenti non si sono trovati d’accordo con questa iniziativa. Hanno detto che il Papa è “nemico della scienza”, in quanto affermò durante un discorso fatto 18 anni prima che “il processo contro Galileo (un luminare della scienza che fece all’incirca la stessa fine di Socrate) fu ragionevole e giusto”. Questo è solo per farti capire con quanta leggerezza ci si permetta di estrarre parti da un contesto di chissà quale mole e polivalenza di significati… Una sola cosa spero: che il tuo pensiero venga ampiamente utilizzato come spunto, perché è da quelli come te che parte la consapevolezza di poter rendere questo mondo qualcosa di veramente buono. Grazie, Aristocle!
Sperando di incontrarti quando la mia esistenza finirà,

Silvia

P.S. Il tema dell’anello del potere va di moda anche oggi! Chissà se dalle tue parti gira un certo J.R.R. Tolkien, secondo me andreste d’accordo

Silvia Segantin classe 3^ A  Ling.

 

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